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Dolore e gratitudine per don Roberto

Villacidro. Una folla commossa proveniente da tutta la Sardegna, insieme con oltre quaranta sacerdoti, ha salutato don Roberto Lai per l’ultima volta nella parrocchia di Santa Barbara in cui è cresciuto e che ha sempre amato.

Carissimi tutti, la celebrazione a cui stiamo partecipando è memoriale della morte e risurrezione del Signore. Oggi proclamiamo a voce alta questa verità per noi e per il nostro fratello sacerdote don Roberto Lai. Essa è il senso della nostra speranza, della nostra fede, della nostra carità. Siamo qui come credenti in Cristo Risorto seppure con il cuore segnato dalla tristezza e dal dolore, per la morte del nostro fratello don Roberto. Egli ha affrontato molti anni di sofferenza, resasi ancora più dura e impegnativa in questi mesi, nei quali si sono alternate la speranza e l’angustia, la fatica e lo scoraggiamento, la serenità e il dramma. Oggi si compiono qui e si danno appuntamento tre misteri che ci aiutano capire la nostra celebrazione e di fronte ai quali siamo chiamati noi stessi ad interrogarci.

In primo luogo, il mistero della vita. Essa è dono che ciascuno di noi riceve gratuitamente, inaspettatamente; un dono misterioso e immenso che Dio ci offre per renderci partecipi della sua abbondanza di vita e di Grazia. A mano a mano che cresciamo in età, si fa strada in noi la consapevolezza di essere creature chiamate ad aprirci alla presenza di Dio e del suo amore. La vita alla fine altro non è se non la possibilità straordinaria di aprirci al mistero di Dio e di noi stessi. Egli ci chiama a partecipare alla gioia dell’esistenza e a manifestare attraverso la nostra vita la bellezza del Dio creatore. Il nostro fratello sacerdote Roberto ha accolto il dono della vita e si è sforzato di portarlo a maturazione, aiutato e incoraggiato da tante persone, in primo luogo dalla sua famiglia. In uno scritto che mi ha fatto avere solo qualche giorno prima della sua morte esprimeva gratitudine, insieme alla consapevolezza di aver bisogno della misericordia di Dio e la riconoscenza verso la Chiesa diocesana che l’ha accolto.

Scriveva: “Devo dire il mio grazie anzitutto a mia madre e a mio fratello per avere sempre rispettato le mie scelte. Insieme a loro, ai miei nonni e ai miei parenti che hanno fatto altrettanto. Nel ministero sacerdotale ho cercato, come ho potuto, di corrispondere al meglio alla Divina Chiamata. Imploro la misericordia del Signore per le numerose mancanze e negligenze. Ringrazio i vescovi, i confratelli sacerdoti ed invoco sulle comunità che ho servito (Arbus, Mogoro, Terralba, Siddi, Pauli Arbarei, Uras.) la celeste benedizione. Se, volontariamente o involontariamente, ho offeso qualcuno chiedo la carità del perdono: voglio morire riconciliato con tutti. Da parte mia perdono di cuore le offese ricevute, le maldicenze, le calunnie, pregando per chi mi ha fatto del male. Ringrazio i benefattori e quanti mi hanno sostenuto in diversi modi: il Signore li ricompensi”.

Sì, la vita è gratitudine verso coloro che ci hanno permesso di curarla e farla crescere. Essa però racchiude anche un altro mistero: quello della fragilità e della malattia. È inevitabile la domanda che tutti ci poniamo di fronte alla vicenda di don Roberto: perché la sofferenza, la caducità? Perché la malattia e poi la morte? Come cristiani crediamo che la nostra esistenza sia tesa verso un progetto di eternità, di incontro con il Signore ma al tempo stesso avvertiamo la fragilità umana, l’essere fatti di terra; sperimentiamo la nostra condizione di transitorietà dell’esistenza e rifiutiamo il dolore e la malattia.

È il mistero, come direbbe san Paolo, dell’essere destinatari di un grande tesoro – il dono dell’esistenza – e sentire la chiamata, come ancora dice la Scrittura, ad essere poco meno degli angeli, ed essere coronati di gloria.., ma al tempo stesso ad essere fragili come vasi di terracotta, che si rompono facilmente. È questa l’esperienza drammatica che ha fatto il nostro fratello sacerdote Roberto: sperimentare la bellezza della vita, la grande dignità della vocazione, la gratitudine per tutta la magnificenza che ci circonda e al tempo stesso la durezza della malattia, la vita appesa ad un filo.

Per don Roberto questa esperienza di precarietà è durata a lungo, quasi 8 anni, duranti i quali ha lottato con un tumore al fegato “il compagno di viaggio”, come lo ha chiamato, esigente e molesto. In questi anni egli si è sforzato di portare avanti il suo ministero sacerdotale e l’impegno pastorale, nonostante tutto. Il suo rammarico era – a causa delle chemioterapie continue – di non poter assolvere i suoi compiti di parroco per dover spendere del tempo per curarsi.

Don Roberto si è fatto la domanda che risuona dentro ciascuno di noi nel momento della prova: perché questa malattia? Nella sua riflessione scrive: “La malattia mi ha fatto riflettere parecchio su questo silenzio del Sabato Santo, ma anche sul Venerdì Santo, nel quale il cammino della croce si deve compiere fin sulla cima del monte ed esaurirsi fino all’ultima stilla di sangue: solo sul Golgota si potrà dire consummatum est.(..) Come e quando giungerò alla cima del Cranio, chiamato Golgota, solo Dio lo sa. Anche se con un certo timore dico: “Sia fatta la tua volontà”, sono certo che dopo il dolore e il silenzio arriverà il grande Alleluia della vittoria finale: allora potrò dire anch’io con San Paolo “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tim 4,7)”.

Il terzo mistero che ci interroga stasera è quello della morte. Essa è appuntamento ineluttabile per ogni uomo, per ciascuno di noi. Spesso risulta incomprensibile quando l’ala della morte ferisce la vita di un giovane che avrebbe voluto e potuto ancora dare molto. Don Roberto nel suo tempo di malattia ha lentamente accolto l’idea della caducità e della conclusione della sua vita. Era ancora alla Clinica di Monserrato, a metà dicembre, e io ero presente quel giorno, quando i medici, gli hanno comunicato, cercando le parole più adatte, la necessità di un trasferimento in un altro luogo, un Hospice, dove affrontare la terapia del dolore, dato che non era più efficace per il suo male, la chemioterapia.

Da uomo intelligente, egli ha capito subito che si trattava di un cammino che lo avrebbe portato alla conclusione dell’esistenza. A tutti noi quel momento sembra lontano, ma quando si ferma a poca distanza dai nostri occhi, ci sentiamo smarriti, confusi e schiacciati. A quelle parole sono spuntate dai suoi occhi delle lacrime. Il silenzio ha avvolto quanti eravamo presenti, per qualche minuto, rispettosi di quel momento così intimo e drammatico. Don Roberto ha iniziato lentamente a dialogare con la possibilità della morte, rinnovando la sua fiducia in Dio e nella Sua promessa di essere con Lui sino alla fine e oltre la fine.

È significativo il suo desiderio di celebrare l’eucarestia, anche in condizioni piuttosto difficili, nella sua stessa stanza di ospedale. Cercava spazi di preghiera e meditazione, nel desiderio di un contatto frequente con il Signore. Ecco fratelli e sorelle questa è la sintesi di un cammino di vita, di malattia e incontro con la morte, ma nella luce della Resurrezione. La parola di Gesù: chi crede in me anche se è morto vivrà, aiutano ad affrontare questo momento di dolore per tutti noi. Mons. Dettori mi ha incaricato di portare le sue condoglianze, e così altri vescovi della Sardegna e molti sacerdoti sia della diocesi di Oristano che delle altre diocesi. Ci stringiamo con affetto alla sua famiglia: alla sua mamma Barbara che con tenacia e perseveranza, con grande amore, come Roberto stesso ha detto, lo ha sempre seguito, senza risparmiarsi; a suo fratello Marco, alle altre persone della sua famiglia, ai sacerdoti della diocesi, alle comunità dove ha svolto il ministero pastorale e che hanno fatto sentire il loro affetto.

Ancora nel suo testamento scriveva “Prego per la santa Chiesa che è mia madre, ed in particolare per la nostra diocesi di Ales-Terralba, con il suo vescovo e i suoi sacerdoti. Chiedo al “Padrone della messe” che susciti ancora vocazioni al sacerdozio, per la messe diocesana: non ne siamo degni, ma ne abbiamo bisogno.” E chiudeva il suo scritto dicendo: “Signore abbi misericordia di me, perché sono un peccatore. Tuttavia, ho cercato di servirti e di corrispondere alla tua chiamata come ho potuto. Perdona i miei errori, mostrami il tuo volto ed io sarò salvato. Così sia!”

+ Roberto Carboni

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